La definizione di biomassa nella normativa italiana
La definizione di biomassa nella normativa italiana
Attualmente non esiste in Italia una definizione univoca di biomassa. Data l'eterogeneità dei materiali, il campo di utilizzo, la provenienza, ecc., la definizione di biomassa assume un significato diverso a seconda dell'ambito di applicazione o della normativa di riferimento. Ne consegue che sia per la procedura autorizzativa di un impianto a biomasse che per l'utilizzo di biomasse come combustibile o per la gestione di biomassa intesa come rifiuto o sottoprodotto, dovrà essere utilizzata la definizione della normativa che in quel momento si sta utilizzando.
La cosa può creare difficoltà di attribuzione, dato che le diverse fonti legislative e istituzionali la definiscono in maniera diversa e, talvolta, contraddittoria. Infatti, proprio la tipologia del materiale combustibile e la sua provenienza sono stati oggetto di dinieghi e ricorsi in merito alle procedure autorizzative degli impianti.
Biomasse e IAFR
Il primo approccio alla definizione di biomassa si ha confrontandosi con la procedura autorizzativa dell'impianto, in caso esso sia dedicato alla produzione di energia elettrica. L’art. 2 del DLgs 387/2003 riprende testualmente la direttiva 2001/77/CE e stabilisce che "... per biomassa si intende la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”.
Nel contesto della disciplina delle fonti di energia rinnovabile questa è l’unica definizione di biomassa – presente nella legislazione italiana – che sia rilevante e congruente con la pertinente direttiva (TAR Piemonte Sezione I, sentenza 1563 del 5 giugno 2009).
La definizione di biomassa ai sensi del DLgs 387/2003, è stata ampliata dal recente DLgs 28/2011 recante “Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE”. L'art. 2, lettera e), definisce la biomassa come “la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l'acquacoltura, gli sfalci e le potature provenienti dal verde pubblico e privato, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani.”
Oltre alla definizione generale sono distinti i seguenti composti (art. 2):
• bioliquidi i “combustibili liquidi per scopi energetici diversi dal trasporto, compresi l'elettricità, il riscaldamento ed il raffreddamento, prodotti dalla biomassa”;
• biocarburanti i “carburanti liquidi o gassosi per i trasporti ricavati dalla biomassa”;
• biometano il “gas ottenuto a partire da fonti rinnovabili avente caratteristiche e condizioni di utilizzo corrispondenti a quelle del gas metano e idoneo alla immissione nella rete del gas naturale”.
Rispetto alla precedente direttiva 2003/30/CE, viene aggiunta la definizione di "biometano" e vengono distinti i “bioliquidi” dai “biocarburanti”.
Biomasse combustibili
Più dettagliata è la definizione di biomassa nel caso la si debba intendere come combustibile nella procedura di autorizzazione alle emissioni in atmosfera, ai sensi del DLgs 152/2006, parte V.
Ricordiamo che non necessita di autorizzazione alle emissioni gli impianto di combustione alimentati a biomasse, con potenza nominale inferiore 1MW, o a biogas con potenza nominale inferiore 3MW (art. 269, comma 14, lettera a, e lettera f). Diversamente, per quanto riguarda la definizione dei combustibili consentiti, questi sono indipendenti dalla soglia dimensionale dell'impianto, e sono descritti all'art. 293 ed elencati in dettaglio all'allegato X. Per quanto riguarda le biomasse essi sono:
• biodiesel;
• legna da ardere;
• carbone di legna;
• biomasse combustibili;
• biogas;
• gas di sintesi.
Lo stesso decreto all'allegato X, parte II, sezioni 1, 4 e 6 indica anche le caratteristiche e le condizioni di utilizzo dei combustibili, che di seguito riportiamo.
Biodiesel
Vengono dati i valori limite delle proprietà che il combustibile deve avere in termini di viscosità, residuo carbonioso, acidità, potere calorifico, ecc. (allegato X, parte II, sezione 1, par. 3).
Legna da ardere e altre biomasse combustibili
Vengono definite la provenienza e le condizioni di utilizzo (allegato X, parte II, sezione 4), e cioè:
Tipologia e provenienza
a) Materiale vegetale prodotto da coltivazioni dedicate;
b) Materiale vegetale prodotto da trattamento esclusivamente meccanico di coltivazioni agricole non dedicate;
c) Materiale vegetale prodotto da interventi selvicolturali, da manutenzione forestale e da potatura;
d) Materiale vegetale prodotto dalla lavorazione esclusivamente meccanica di legno vergine e costituito da cortecce, segatura, trucioli, chips, refili e tondelli di legno vergine, granulati e cascami di legno vergine, granulati e cascami di sughero vergine, tondelli, non contaminati da inquinanti, aventi le caratteristiche previste per la commercializzazione e l’impiego ;
e) Materiale vegetale prodotto dalla lavorazione esclusivamente meccanica di prodotti agricoli;
f) Sansa di oliva disoleata [...];
g) Liquor nero ottenuto nelle cartiere [... ].
Condizioni di utilizzo
La conversione energetica di tali biomasse può essere effettuata attraverso la combustione diretta, ovvero previa pirolisi o gassificazione.
Biogas
Vengono fornite sia le caratteristiche sia le condizioni di utilizzo del biogas (allegato X, parte II, sezione 6). Il biogas deve provenire dalla fermentazione anaerobica metanogenica di sostanze organiche, quali per esempio effluenti di allevamento, prodotti agricoli o borlande di distillazione, purché tali sostanze non costituiscano rifiuti ai sensi della parte quarta del decreto. In particolare non deve essere prodotto da discariche, fanghi, liquami e altri rifiuti a matrice organica.
Il biogas derivante da rifiuti può essere utilizzato con le modalità e alle condizioni previste dalla normativa sui rifiuti.
Il biogas deve essere costituito prevalentemente da metano e biossido di carbonio e con un contenuto massimo di composti solforati, espressi come solfuro di idrogeno, non superiori allo 0,1% v/v.
Rapporto tra biomassa, sottoprodotto e rifiuto
L'attribuzione di alcuni rifiuti "biodegradabili" alla accezione di "biomasse" al fine della valorizzazione energetica e dell’accesso ai meccanismi di incentivazione all'interno della normativa energetica, comporta da molti anni dubbi interpretativi e la conseguente rimodulazione delle definizioni.
Già dalla Legge 10/1991, tra le fonti rinnovabili definite all'art. 3, comma 3, è annoverata anche la trasformazione dei rifiuti organici ed inorganici o di prodotti vegetali. Secondo il DLgs 79/1999, fra le fonti rinnovabili è annoverata anche la trasformazione in energia elettrica di prodotti vegetali e rifiuti organici ed inorganici (art. 2, comma 15).
Secondo la Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 10 maggio 2000 sulla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità, si definiscono biomasse gli scarti vegetali provenienti dall'agricoltura, dalla silvicoltura e dall'industria alimentare nonché cascami di legno non trattati e cascami di sughero.
Nella posizione comune CE n. 18/2001 definita dal Consiglio in vista dell’adozione della direttiva europea sulla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili, le biomasse vengono così definite: "la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali ed animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali ed urbani”.
A seguire, il DLgs 387/2003 ha ripreso questa definizione, specificando meglio l'ultima categoria e cioè: "...la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani, purché non pericolosa ai sensi degli allegati del Decreto Ronchi sui rifiuti".
Nella nuova definizione di "rinnovabili” data dal DLgs 387/2003 scompaiono i "rifiuti inorganici”, presenti nel DLgs 79/1999. Tuttavia l’articolo 17 (commi 1 e 3) del DLgs 387/2003 stabilisce che, pur nel rispetto della gerarchia di trattamento sancita dal DLgs 22/1997 (priorità al recupero di materia rispetto al recupero di energia) alcuni rifiuti anche non biodegradabili erano ammessi a beneficiare del regime di promozione riservato alle fonti rinnovabili.
I rifiuti ammessi erano quelli non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero, individuati dal Dm 5/2/1998 (poi modificato dal Dm 5/4/2006 n. 186) e quelli ulteriori individuati dal successivo DM 5/5/2006. Erano invece esplicitamente esclusi dal regime riservato alle rinnovabili: le fonti assimilate, i beni, i prodotti e le sostanze derivanti da processi il cui scopo primario fosse la produzione di vettori energetici o di energia, i prodotti energetici non conformi ai requisiti definiti nel DPCM 8/3/2002 (confluito assieme al DLgs 22/1997 nel DLgs 152/2006) disciplinante le caratteristiche merceologiche dei combustibili.
Lo stato attuale del rapporto biomassa/rifiuto
Le recenti disposizioni intervenute in materia di rifiuti, nonché l’evoluzione della giurisprudenza sia comunitaria che nazionale, portano ad affermare che la nozione giuridica di rifiuto si è evoluta al punto da richiedere un approccio dinamico alla stessa. Secondo l’art. 3, punto 12, della direttiva 2008/98/CE, al fine di ridurre la produzione di rifiuti occorre innanzi tutto fare prevenzione allungando il più possibile il ciclo di vita dei prodotti.
Quanto affermato trova esplicitazione:
1. nell’art. 7, punto 1, della Direttiva 2008/98/CE secondo la quale “L’inclusione di una sostanza o di un oggetto nell’elenco dei rifiuti non significa che esso sia un rifiuto in tutti i casi. Una sostanza o un oggetto è considerato un rifiuto solo se rientra nella definizione di cui all’art. 3, punto 1.”
Secondo quest’ultima disposizione si definisce “rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi.”
2. nella sentenza del 12 settembre 2008 n. 35235, con la quale la III sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che “l’imprenditore non si disfa di un residuo se può ancora utilizzarlo ricavandone utili, riutilizzandolo nel proprio ciclo produttivo o vendendolo. La vendita è operazione commerciale che reca vantaggi al venditore ed all’acquirente e non gestione di un rifiuto. La gestione degli scarti comporta costi ed oneri, quella dei sottoprodotti arreca invece vantaggi. Il valore economico del residuo è un elemento determinante per la distinzione tra scarto e sottoprodotto anche se spesso è stato trascurato dagli interpreti”.
3. nella definizione di rifiuto contenuta all’art. 183, comma 1, lett. a) del DLgs 152/2006 (modificato dal DLgs 205/2010), che richiede la compresenza di due requisiti per la classificazione di una sostanza quale rifiuto e cioè “che il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi” (comma 1, lettera a) e che rientri nelle categorie riportate nell’allegato alla parte IV.
In materia di rifiuti, le caratteristiche e le condizioni di utilizzo in impianti industriali e termici sono definite all'articolo 185 del DLgs 152/2006, parte IV. Nella attuale formulazione viene definita una gerarchia di gestione dei rifiuti, che comprende “l'opzione” del recupero di energia e l'impiego dei rifiuti per la produzione di combustibili e il successivo utilizzo come altro mezzo per produrre energia.
In tal senso sono escluse dall'ambito di applicazione della parte IV del Decreto le seguenti materie:
• Art. 185, comma 1, lettera f) le materie fecali (se non contemplate dal comma 2, lettera b), paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana;
• Art. 185, comma 2, lettera b) i sottoprodotti di origine animale, compresi i prodotti trasformati, contemplati dal regolamento CE n. 1774/2002, eccetto quelli destinati all'incenerimento, allo smaltimento in discarica o all'utilizzo in un impianto di produzione di biogas o di compostaggio.
In conclusione la definizione di biomassa come rifiuto non è sempre chiara e per definire se ci si trova in presenza di un rifiuto (e quindi se si rientra nel campo di applicazione della parte IV del DLgs 152/2006), il proponente e il responsabile del procedimento autorizzatorio dell'impianto a biomasse si devono interrogare su quali siano le intenzioni del soggetto che ha prodotto la biomassa in ingresso (o in uscita), da quale processo produttivo sia scaturito e se sia contenuto in elenchi che lo definiscono tale.
L’incrocio di queste variabili porterà alla classificazione corretta della sostanza, ed è proprio alla luce delle variabili sopra dette, che la medesima sostanza può essere classificata in modo differente. Sottolineiamo inoltre per gli impianti a biogas, che proprio l'art. 185, comma 2 impedisce di escludere a priori dall'ambito di applicazione della parte IV del DLgs 152/2006 una sostanza di origine animale destinata alla produzione di biogas.
L'impiego dei sottoprodotti per la valorizzazione energetica
Il DLgs 152/2006 (modificato dal DLgs 205/2010) all’art. 183, comma 1, lettera qq) definisce sottoprodotto e non rifiuto (ai sensi dell'art. 183 comma 1 lett. a) qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa le condizioni e i criteri di cui all'articolo 184-bis, commi 1 e 2, ovvero:
a) la sostanza o l'oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b) è certo che la sostanza o l'oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c) la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d) l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana.
A tentare di dirimere i conflitti di attribuzione tra sottoprodotto e rifiuto è intervenuta la recente modifica all'art. 184. In particolare l'art. 184-ter sostiene che un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un'operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni:
a) la sostanza o l'oggetto e' comunemente utilizzato per scopi specifici;
b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;
c) la sostanza o l'oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti;
d) l'utilizzo della sostanza o dell'oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o sulla salute umana.
Un ulteriore conflitto di attribuzione talvolta nasce dalla pratica di stoccaggio, nei depositi dell'impianto, di rifiuti gestiti come tali per la produzione di energia. Tale materiale può essere incluso sia nelle definizioni del DLgs 387/2003 sia in quelle del DLgs 152/2006 (artt. 208 e 214), ma entrambe le norme comprendono rinvii reciproci ancora incompleti. Risulta evidente che non è possibile una definizione a priori della biomassa come sottoprodotto o rifiuto e la classificazione delle biomasse in ingresso deve essere effettuata caso per caso analizzando in dettaglio tutta la filiera di produzione, gestione ed utilizzo finale della biomassa. La corretta valutazione è fondamentale perché l'attribuzione a rifiuto o sottoprodotto può influire in modo significativo sul business plan dell'impianto.
FONTE: Nextville
http://www.nextville.it/temi-utili/49
- Blog di Federica Resenterra
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